Progetti

La Decima Musa

Presentazione dell’iniziativa fotografica del Comitato: “La Decima Musa”

Diceva un tempo Tolstoy che “l’uomo è una sua manifestazione nella materia, nel tempo e nello spazio”, ritenendo ciò immensamente vero, abbiamo fatto di questa considerazione la massima del nostro agire e avendo già trovato sufficiente spazio nel terreno cittadino, sacrificando parte del nostro tempo, abbiamo pensato a come riempirlo. Abbiamo immerso le mani nel terreno argilloso di secoli di storia della nostra bella città e senza paura di sporcarci abbiamo creato qualcosa, abbiamo plasmato la materia per colmare il vuoto che ci era stato dato con quanto abbiamo trovato studiando, discutendo e camminando senza meta per le antiche vie della nostra nobile patria. Tutti coloro che recandosi alla presentazione del progetto pensavano di partecipare ad un evento “comune”, con le classiche foto delle classiche belle ragazze sono caduti in errore, le foto ritraggono sì belle ragazze, ma esse non sono che parte del tutto ed è questo tutto sul quale noi ci siamo soffermarti. Il Comitato, badate, nasce per perseguire uno scopo culturale, nato con tale intento di propaganda, sempre si farà vessillifero di ciò fin quando non si estinguerà. Qualcuno potrebbe tacciarci di vanagloria osservando come con non poca presunzione abbiamo agito in grande, come soggetti sconosciuti e poco noti abbiamo richiesto unanime collaborazione di negozianti, fotografi, letterati autoctoni per un progetto incerto e forse senza futuro. Le difficoltà non sono state poche eppure mentre agivamo seguendo immaginari fili di Arianna di un labirintico percorso più grande di noi, ad ogni passo incerto che muovevamo ci guardavamo attorno consapevoli di aver innescato forze capaci di annientarci o di innalzarci al tempo medesimo. Agendo illuminati da una instancabile volontà di riscatto abbiamo sperato che dal sodalizio di menti, sponsor e sapere sarebbe nato qualcosa di interessante e promettente e, senza peccare di immodestia, posso dire che così è stato. Le forze evocate come fiati fecondi hanno soffiato in nostro favore, gonfiando le nostre vele, così che ogni cosa mentre la si costruiva o pensava acquisiva una sua logicità, sembrava, dicevo, che fossero gli stessi elementi ad essere richiamati dall’aprioristico progetto che si aveva in mente. Ed ecco che quella posa della ragazza diventava richiamo di un “qualcosa di altro”, di un “qualcosa lontano” già visto, forse molti anni fa, forse da un nostro prozio, in questo luogo o magari più in là. L’assoluta razionalità degli elementi così come combinati ci ha permesso di astrarci dall’intento puramente celebrativo per dar vita a qualcosa di nuovo e autentico tale che potremmo definirlo una rilettura in chiave giovanile dei principali punti nevralgici della città oppure potremmo parlarne come uno sguardo nostalgico rivolto verso quei luoghi poetici dimenticati. Alla fine, quel che importava era l’attitudine evocativa di ogni immagine, filtrata attraverso la lente del fotografo, che mediante un processo di astrazione ha restituito grande dignità alle polveri della storia. La presenza dell’artefice, del suo lavoro e del substrato storico-culturale hanno reso inevitabile il richiamo alle regine dell’ispirazione artistica, le abitanti del Monte Parnaso, che come in un gioco di riflessi diventavano soggetto e fonte emanante dell’opera, centro unificatore delle pulsioni interne ed esterne, che rendevano il tutto troppo vivo ed eloquente. Nell’attimo in cui abbiamo riposto le nostre intenzioni sotto il patrocinio delle nove Muse, esse son divenute le vere protagoniste e sempre complici, dell’opera. Mentre lavoravamo sugli scatti ci siamo accorti che quella potenza artistica racchiusa in una flessione dell’arto, nella sinuosità delle giunture della carne, nelle pieghe delle lunghe vesti, negli sguardi, nella luce era incontenibile singolarmente tanto da trasbordare fuori. Così, attoniti, ci rendevamo conto che il numero nove, sebbene numero della conoscenza per gli antichi e simbolo dell’amore eterno per Dante, qui, non era sufficiente. La sovrabbondanza travolgeva l’individualità della fotografia e fuoriuscendo seguiva il corso di una carica positiva latente che scorre nel suolo cittadino. Seguendo le ricche sponde del letto del fiume siam giunti fino alla Fortunata di piazza, la nostra decima Musa, che richiamava ogni pulsione come significante del significato, espressione della nostra storia, che sebbene racchiusa in tutti i luoghi della città, qui, acquistava la sua ragionevolezza, il suo perché ultimo. Non senza un’iniziale ritrosia di fronte alla presunta banalità che poteva risultare dal considerare la divinità alla quale la nostra città è consacrata l’idolo del nostro progetto, dopo vari tentativi di falsificazione ci siamo resi sempre più conto dell’assoluta logicità di questa idea. Convinti e determinati, abbiamo avviato opere e critiche affrontando l’argomento in quell’ordine di trattazione che Esiodo esige. La prima è quindi Clio una giovane donna tra antiche rovine, avvolta in un manto rosso vermiglio, è assorta nella lettura. Clio, che rende celebri, ammantata del rosso del sangue delle battaglie, delle morti d’amore, dei tradimenti e delle congiure, è sorpresa mentre legge delle umane imprese in libri storici che Lei stessa ispirò. Questa donna, allegoria, del carme storico, consapevole della centralità del passato come chiave di lettura dell’oggi, indugia nello studio di sé, per apprendere dai suoi sbagli e dalle sue cadute. Lo scenario in rovina è quello dell’antica Chiesa di Santa Maria a Mare, consacrata primariamente da Papa Gregorio IV, poi ospizio di pellegrini e oggetto di devozione dei Malatesti che le donarono pesanti ex voto per i miracoli compiuti dalla Madonna del Mare. La Musa è immortalata stante e riflessiva in quel luogo d’abbandono che, come si narra, fu sommerso dalle acque dell’Adriatico e, riemerso, cadde in malora, disperdendosi mattone dopo mattone. Molte altre cose sarebbero da aggiungere, ma noi abbiamo preferito lasciarle all’intuito dell’osservatore perché molto spesso il meglio dell’arte sta proprio in quanto è taciuto. Nella foto successiva di Maria Luisa Palazzi c’è Euterope, che rallegra, con un flauto in mano a rappresentare la poesia lirica, nell’ameno scenario della porta della Mandria. Il nome della porta, che apriva assieme alle quattro porte principali gli originari 1760 metri di cinta muraria, è di origine medioevale e si deve al fatto che per questo varco transitavano le greggi portate al pascolo. Il combinato dello strumento musicale e dell’elemento animale sono fortemente rievocativi nell’immaginario collettivo del dio Pan, divinità protagonista del pantheon minore greco, mezzo uomo mezzo caprone raffigurato sempre con un flauto o siringa in mano. Il nome greco del Dio deriva dal verbo paein cioè pascolare, che rendeva Pan oltre che signore delle selve, dio pastore per eccellenza e protettore delle greggia. Se Euterpe avesse deciso di suonare le sue dolci note in qualche luogo della città sarebbe stato proprio qui. Se qualche Dio o uomo l’avesse cercata per richiederla come giudice di leggendarie sfide musicali (come quella tra Apollo e Marsia), proprio qui si sarebbe dovuto recare. La terza Musa è Talia, la festiva, divina incarnazione della Commedia, immortalta nella foto di Andrea Briscoli, presso le rovine dell’antica Chiesa di San Francesco presso il Comune. L’idea di Talia in questo luogo si riallaccia alla cultura italiana e ai versi dell’ Ugo Foscolo dei Sepolcri che narra di come il Parini fosse solito onorare questa Musa innalzandole corone d’alloro. Come teatro della Commedia si è scelta la Chiesa di San Francesco, che ha per tetto il cielo e per suolo l’erba, romanticissimo spettacolo di una natura incontenibile e sovrana, di cui rimane solo il perimetro interno scandito dal susseguirsi ritmico di paraste e lesene e antichi altari e sepolture. Una Talia oscura, vestita di blu come quella dipinta da Nattier, con in testa una ghirlanda d’edera simbolo di eternità, danza irridendo la morte e la fallacità umana che nulla può contro la sua incorruttibile bellezza e giovinezza. Di Commedia in Tragedia si passa a Melpomene, che canta, nella foto di Marco Signoretti presso San Pietro in Episcopio, per i fanesi San Pirusquin. Una Melpomene vestita di un lungo abito bianco medievaleggiante, che sembra uscita dalle più felici tele di Burne-Jones, più tardo esponente del movimento preraffaellita inglese. Il candore della veste, che richiama i mantelli dei Confratelli di Santa Maria del Suffragio a cui la Chiesa appartiene, unita al diafano incarnato e alla posa languida e pensosa trasmettono quella melanconicità di chi osserva la tragedia abbattersi sull’uomo e sulle cose. Tragica fu la storia della Chiesetta di pietra, di nobili natali (si disse fondata nel 78 da S. Appollinare vescovo di Ravenna), celebrata per aver accolto la spoglia vinta di Bartolagi da Fano, che difese Aquileia da Attila, fu vittima di un un lento degrado fino a quando negli anni 80 l’architetto Lamedica e la Confraternita del Suffragio non la riportarono alla sua antica purezza. Quinta nell’ordine della Teogonia è Tersicore, che si diletta nella danza, qui propriamente immortalata nel felicissimo scatto di Maria Virginia Boiani presso il Bastione Sangallo. La decisione di rappresentare la danza, massima espressione della libertà individuale ed artistica, in un luogo di guerra e di difesa, in una prima analisi parrebbe ingiustificata eppure la chiusa pianta a diamante del Bastione (1532), opera dell’architetto Antonio da Sangallo, che infiocca a guisa di nastro la cinta muraria nel lato sudorientale, contribuisce a dare qual senso di circolarità e ripetitività che contraddistinguevano le cicliche danze tribali ed anche quelle greche e romane di Menadi e Baccanti. Tersicore col suo movimento ampio investe la circolarità del luogo e diventa parte del tutto, perfettamente amalgamata con l’architettura bellica che al suo passaggio pare quasi addolcita. Una medesima potente influenza sul luogo è esercitata dalla bella Erato, che provoca desiderio, tale è la Poesia Amorosa secondo l’interpretazione di Debora Iacucci. Rappresentata mentre indugia, sensuale, in prossimità della Rocca Malatestiana, baluardo della città e contraltare nord del Bastione sopra citato. La rocca, anticamente progettata secondo i canoni difensivi prescritti da Leon Battista Alberti si struttura a cerchi concentrici: attorniata da un fossato, è protetta da una cinta di mura e da una “rocchetta” ed infine dal mastio, cioè la struttura più antica e autorevole della rocca, oggi miseramente abbattuto. Il mastio o maschio che in un’immaginario cavalleresco rappresenterebbe proprio il vigore e la forza maschia del soldato, in questo scenario voluttuario si mostra ingentilito, vinto dal richiamo dell’amorosa poesia. Non ci sono roccaforti e baluardi che la femminilità non riesca a prendere, come non c’è cuore inespugnabile che non soccomba al richiamo d’amore. Percorrendo via Nolfi giù fino alla Chiesa di San Marco, si incontrerà Polimnia, che ha molti mimi, ripresa da un Anonimo passante. Le luci del tramonto che si riflettono sulla facciata a gradini della Chiesa di San Marco riprendono le tinte della veste della Musa che con mani aperte nel classico gesto di pantomima, diventa Chiesa tramite un processo di metamorfosi già in atto. I colori della veste sembrano cangiare con l’avanzare delle luci rosse del sole morente e il capo svettante incoronato dal lauro diventa campanile e richiama la retrostante torre campanaria di “Lauro” Bonaguardia, una delle poche superstiti della furia nazista, che qui si è voluta celebrare. In prossimità dell’Arco d’Augusto Vanessa Lucchetti ha colto un’Urania in bianco e nero, con quel bastone puntato al cielo, un bastone che nell’immaginario collettivo, riccamente nutrito di secoli di credenze e studi aristotelici, è diventato asse terreste luogo in cui si incontrano le pulsioni contrastanti dei poli, positivo e negativo, vita e morte o morte e rinascita. Urania, la celeste, è l’Astronomia, lo studio del cielo, studio che fino al più tardo medioevo veniva intrapreso soprattuto per orientarsi sulla terra, si guardava lassù per muoversi quaggiù! Non è quindi casuale la sua collocazione nei pressi dell’Arco d’Augusto, porta romana a tre fornici che venne commissionata da Ottaviano Augusto a cui fu poi dedicata. La porta si trovava al culmine della strada Flaminia proveniente da Roma che qui entrava per uscire dalla porta nord, Porta Iulia poi Porta Pesaro diretta a Rimini. Fano, grazie alla sua felice posizione, divenne in poco tempo uno snodo centrale per viaggi e traffici commerciali. L’Arco ancora oggi corona il Decumano Massimo che taglia la città in due e che un tempo si intersecava con il Cardo (l’attuale via Nolfi) nei pressi del foro. Urania indugia, oggi come allora con quel suo sguardo severo sull’eterno transitare in quel bellissimo luogo mutevole, continuamente mosso, come la sua veste, come le pieghe e i drappeggi che diventano “geroglifici viventi che si ergono in maniera particolarmente espressiva per l’insondabile mistero del puro essere”. L’ultima Musa della Scuola Classica che incontreremo sarà Calliope, il bel canto, l’epica, l’immagine di Luca Roscini la ritrae presso la Darsena Borghese, dal bel loggiato tamponato. La darsena, sita ai piedi della Rocca, serviva alla protezione della città dagli attacchi dei Saraceni. Il nome deriva da papa Borghese, che ne approvò il progetto portato a termine nel 1618 dopo cinque anni dall’avvio dei lavori da Girolamo Rainaldi. Il Portus Burghesius, poi Darsena, accoglie lieto la presenza della Musa di Omero, tra i suoi luoghi, fu lei, Calliope, ad ispirare il felicissimo Catalogo delle navi (νεῶν κατάλογος), un passo del secondo tomo dell’Iliade, che prende in rassegna le navi dell’esercito Acheo prima dello sbarco a Troia. E fu sempre lei l’artefice mediata dall’umano ingegno dell’altro poema, l’Odissea, che è, come pare, tutta una storia di mare. Così se mai la Musa avesse albergato in quel di Fano, quale altro luogo se non questo le si sarebbe addetto così perfettamente: adagiata ai limiti del porto osserva le navi, il mare, le imprese dei nostri uomini. Fu lei a far parlar di noi e, come crediamo, ancora ci farà cantare.
Così giungiamo alla nostra Musa, la Decima, la Fortunata di Piazza, padrona della città, che riempe lo scatto di Simone Giacomoni con tutta la sua travolgente carica. In un remake di una notissima scena della Dolce Vita felliniana, abbiamo animato quella statuetta che da sempre alberga al culmine della nostra fontana di piazza e l’abbiamo dato un corpo dalle fattezze voluttuarie, come un’amante, come una madre e l’abbiamo eletta autentica regina dell’ispirazione, novissima musa del nostro Parnaso cittadino. La Fortuna diventa irriverente, imprevedibile, donna e come un fiume in piena “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla”.

Hanno accompagnato la presentazione gli interventi dei soci Carolina Iaccucci e Marco Brunetti.
Si ringraziano i negozi del Centro di Fano per la collaborazione (in ordine alfabetico): Arnolfi, Blanko Abbigliamento, Femme Cafè, Il Cortile, Mignon, MyLoft, Papillon, Sansovino, Street Style.
Si ringrazia la stilista Daiana Capoferri per l’abito nero della Decima Musa, realizzato su misura.

Si ringraziano tutti i fotografi per la disponibilità e il magnifico lavoro.
Ringraziamo la Confraternita del Suffragio di Fano per la gentile concessione dei luoghi.