Fano

LUX IN ARCANA, LUX IN ARCHIVIO.

di Giuditta Giardini

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Il vuoto che il riposo estivo lascia nelle nostre giornate porta spesso ad interrogarci su questioni irrisolte. Qualche tempo fa, leggendo dell’Inquisizione italiana e delle eresie, lasciai un appunto sulla mia Moleskine: “roghi a Fano?” e poi “streghe?”. Lo spleen fanese e il cattivo tempo del luglio appena trascorso mi fecero ritornare sul punto e mentre mi interrogavo sul da farsi come un Dante rodiniano, qualcuno, forse il vento, mi suggerì di consultare la sezione fanese dell’Archivio di Stato. Non ero mai stata prima d’ora all’Archivio, né sapevo dove fosse o chi lo popolasse. Forse non tutti sanno che sotto l’ala sinistra dell’entrata cortilata della Biblioteca Federiciana, dinnanzi alla nobile dimora dei Castracane, in quel piccolo uscio incorniciato da bianca pietra, riposano le memorie della nostra cittadina. La piccola sala lettura non è che un’ombrosa appendice dell’interdetto deposito dove, a detta dei simpatici archivisti, migliaia di volumi interamente scritti a mano giacciono scaffalati uno sopra l’altro. Dopo qualche ora passata tra annotazioni di spese per roghi e antiche querelles tra popolane che si ingiuriavano ora chiamandosi putana mordace ora fattucchiera, cominciai a divagare dal videlicet dei discorsi diretti incastonati nel rigore ferreo di abbreviatissimi formulai processuali latini e posai gli occhi su di uno spesso volume aperto sul tavolo. Fu così che venni introdotta allo Zonghi, così è detta la Bibbia dell’Archivio, fu infatti l’eponimo Monsignor Zonghi nel 1888 a catalogare, di buona lena, l’intero contenuto dell’archivio, commentandolo pure, come a dire: io l’ho letto. Una volta approfondita questa conoscenza venni iniziata ai segreti dell’Archivio, gli zelanti archivisti mi dissero che il vanto del luogo sono i Codici Malatestiani, una sorta di sommo libro mastro della seconda metà del trecento che solo pochi eletti sanno ancora leggere. Mi presentarono, en passant, l’archivio notarile (1364-1873), molto più esteso e srotolarono davanti ai miei occhi  increduli decine di pergamene (dal 1173) sussurrandomi come neppure l’Amiani ebbe mai il privilegio di conoscerle tutte. Scorsi il dito sui dictat di Innocenzo VIII e Alessandro VI, sui loro sigilli vermigli ad orma dell’anello papale ed infine una pergamena di un vanaglorioso CAESAR mi sbarrò la via. Era il Borgia, signore di Fano, che con quel diploma olografo e autografo (1502) concedeva alla comunità sette anni di esenzione dal pagamento del dazio della pesa, del frumento, del vino e dazione in perpetuo degli introiti dell’ufficio del Danno Dato e altre agevolazioni. Mi nutrii di ciò che affascinerebbe un giurista e sedurrebbe uno storico: scoloriti Statuti del XV secolo, verbali di consigli cittadini, la celeberrima Beneficenza Nolfi e un macro-antifonario di San Paterniano con musiche mai più suonate. Mentre, mai paga, sfogliavo il Liber Maleficiarum del 1495 trovai un piccolo schizzo di due streghe (forse) e mi immaginai il pubblico ufficiale tutto intento a disegnarle ed ugualmente in un Cabreo del 1584, recante le topografie dei possedimenti della Chiesa di San Michele, sorpresi un coniglio e un cane incisi velocemente, che mi fecero cogliere il guizzo vitale latente che scorre tra queste logore pagine con quel sapore di uno “ieri” mai veramente passato che rendere il tutto sempre presente. Con un tonfo e poi un altro e un altro ancora si chiudono i volumi che ritornano nei loro polverosi vani, dove saranno riaperti chissà quando e mentre riconsegno il primo statuto cittadino (ivi conservato), osservo i tanti commenti a margine e i cartigli disegnati dal copiatore distratto che mi ricordano le stanche glosse ai miei appunti universitari.

I SIGNORI SCOMPOSTI DI FANO

di Giuditta Giardini

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C’era una volta nella Fano delle carrozze e delle represse pulsioni scientifiche l’Accademia degli Scomposti, nata dalle ceneri della precedente Accademia dei Musici, faceva promesse di un nuovo impegno e maggiore serietà. A volerla così erudita e tutta impregnata di cultura fu il patrizio fanese Gregorio Amiani, nonché suo fondatore e benefattore più grande che oltre a lasciarle in eredità la sua splendida dimora, sita là dove via Arco d’Augusto china il capo ossequiosa a San Domenico, le affidò pure quel tremendo Drago che per secoli aveva vegliato sull’araldo e sull’uscio di Palazzo Amiani.

Impresa degli Scomposti

Impresa degli Scomposti presso la Biblioteca Federiciana di Fano

E fu così che nacque l’impresa degli Scomposti che ha per soggetto un cannocchiale disciolto in più tuboli col motto COMPOSITI AD SEPOSITA che, a detta del Garuffi, vorrebbe questi uomini uniti per la ricerca di nascoste verità lontane e se poi sia anche farcito di criptati significati esoterici/alchemici non ci è dato saperlo, sebbene la presenza del drago-guardiano e del numero sette dei tuboli non pare essere una banale coincidenza. Scorgendolo alla Biblioteca Federiciana, dove è conservato, quell’araldo oscuro ci lascia una strana sensazione di mistero che è facile riscontrare anche all’entrata di Palazzo Amiani (ora Borgogelli-Avveduti). Fu proprio in quell’atrio, ancor oggi generosamente aperto ai curiosi, che si affaccendarono i più svariati personaggi della Fano secentesca: uomini di legge e medicina, oratori e poeti, patrizi e plebei, religiosi e secolari, tutti riuniti per speculare sulle verità eterne e gli arcani segreti, per pascere il proprio ingegno disposto ad impossessarsi della virtù. Gli incontri segreti avvenivano in media due volte al mese, mentre più frequenti erano quelli in occasioni mondane e in contesti cittadini.

Dall’ingegno degli accademici non sembra sia scaturita alcuna scoperta di rilievo né in campo filosofico né in quello scientifico, sempre celati da una circostanziale frivolezza di facciata, produssero per lo più una vasta serie di composizioni subordinate alle direttive del Principe, ossia il capo designato semestralmente per coordinare le raccolte. Contemporanei di una Chiesa che stilò col sangue il lungo index librorum prohibitorum e impauriti dalla possibilità che il tarlo dell’inquisizione si insinuasse nel loro operato, proclamarono un Censore con il compito di revisionare e purgare gli scritti. Continuarono così a trastullarsi su temi oziosi, privi di mordente e di quella fervida sete di conoscenza cara al vecchio Amiani, fino a quando le adunanze secrete finirono per assumere tratti più burocratici e quelle pubbliche divennero l’occasione ideale per esprimersi in quei campi d’interesse che andavano dalle res humanae alla triste morale, bypassando la gaia scienza. Le ultime notizie che ci restano dell’Accademia risalgono al 10 dicembre 1675, poi più nulla; c’è chi suppone che gli adepti si siano crogiolati nei passati allori a tal punto da diventare improduttivi, chi li vuole confluiti nell’Accademia Fanestre e c’è poi chi preferisce pensarli come un fuoco fatuo, una meteora, che dopo aver abbagliato per pochi istanti la città con le armi sfolgoranti della sapienza, si sia eclissata dietro un mondo che di poetico aveva ben poco.

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MAZZARINETTE E MAZZARINATE

di Giuditta Giardini
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Visse un tempo Girolamo Martinozzi, rampollo di una nobile famiglia fanese, che volendosi maritare sposò la bella Laura Margherita Mazzarino, sorella del Cardinale Mazarin, primo ministro e consigliere del giovanissimo Luigi XIV, le Roi Soleil. Dall’unione nacquero due graziose figliolette Laura e Anna Maria Martinozzi, che, neppure adolescenti, vennero richiamate dallo Zio alla Corte di Francia assieme alle loro cinque cugine, figlie della sorella della contessa Geronima. In due round, tre prima e quattro poi, le sette giovani assaltarono le Palais Royal, senza alcun timore. Belle e slanciate, il loro incarnato scuro riluceva tra il pallore sepolcrale delle diafane pariginefiglie di italico splendore e di romana grazia, per i loro modi aperti e seducenti ben presto si guadagnarono grande notorietà e numerosi nemici.
Les Mazarinades

Les Mazarinades

Infatti, furono allontanate dalla Capitale nei tempi della Fronda (1647) e  apostrofate dalle malelingue con il nomignolo di Mazarinettes, che rima con l’odierno soubrettes, per di più, strascichi della loro fama ci sono giunti in piccoli pamphlet satirici contro l’operato dello zio, le Mazarinades, dove all’occasione vengono dipinte come streghe nere come la fuliggine, con occhioni da gufo, ruvida corteccia e sopracciglia da dannate, mentre in altre invettive sono princesses de terre o anche serpents nauséabonds. Lo stesso Cyrano de Bergerac, secondo monsieur Doulong, le accolse paragonandole a scimmie selvatiche e temendone assolutamente l’innesto. In alcune lettere del tempo si legge proprio di come venissero fortemente sentite come herangères de Rome (straniere di Roma) che avevano osato presentarsi alla maison du Roi al pari della legittima sfilza di principesse di sangue, che, ora, si trovavano a concorrere con le sfrontatissime italiane per la ricerca del buon partito. Infatti questo gemellaggio non fu casuale, il Cardinale aveva già assegnato ad ogni nipote un titolo o un rango e causale non fu neppure l’educazione che le giovani ricevettero prima in Italia (Mazzarino a V.S.: “e troverà che l’educazione di Francia non cede punto a quella d’Italia”) e poi à Paris, che fece di loro perfette mademoiselles di Corte. Se le nostre fanesi s’avviarono di buon grado verso il loro destino già segnato, Laura sposando Alfonso IV d’Este, duca di Modena e Anna Maria il  Prince de sang Armand de Conti, le loro cinque cugine opposero più resistenza. 455px-Fragonard_-_Blind_man's_bluff_game

Laura, la tranquilla, sposò Luigi Borbone e divenne duchessa di Mercoeur; Ortensia sposò Charles de La Porte de La Meilleraye portando in dote titolo e ricchezze del Cardinale, ma subito insofferente dell’esasperante gelosia e moralismo del marito (che si dice arrivò a castigare le nudità delle statue e quadri appartenuti al Cardinale con vernice e scalpello) partì alla volta di Roma dove l’aspettava la sorella Maria andata in sposa a Lorenzo Colonna e già stanca di lui. Insieme intrapresero un rocambolesco viaggio per le corti d’Europa e finirono: Ortensia a Londra come protegée di Re Charles II Stuart (1675) e la sorella Maria a Madrid protetta da Almirante di Castiglia e dalla Reggente di Spagna.Olimpia Mancini, Contessa di Soissons, lasciò la Francia per non finire alla Bastiglia con le altre favorite del Re, infatti con la sorella Marianna, ora duchessa di Boullion, e buona parte delle grandi dame delle Corte vennero coinvolte nell’affaire des poisons (affare dei veleni) e sospettate di aver partecipato a messe nere e riti magici nella dimora della Voisin. Le Mazarinettes lasciarono un segno indelebile nella Francia bigotta de l’Ancien Régime tanto che tutt’ora tanti ne scrivono e molti ne parlano, e quantunque schernite dall’aristocrazia del tempo, la letteratura odierna ne ha fatto modelli di intelligenza e indipendenza.

 

 

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VITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO”

di Giuditta Giardini

Un intervento che doveva essere incentrato sulla storia delle botteghe dell’arte in un viaggio dal Rinascimento ai nostri giorni si è velocemente trasformato in una sorprendente celebrazione della bellezza italiana. Che cosa muove l’Italia a distruggere la bellezza, si chiede il professore Vittorio Sgarbi, che cosa ha permesso la diffusione delle metastasi di cemento che hanno totalmente mutato l’immagine del nostro Bel Paese? Eppure tra i tanti orrori, la regione Marche si direbbe aver conservato piccoli borghi intatti dove si sente ancora il profumo dell’Italia perduta, dimenticata, un’Italia partigiana che ha resistito ai colpi dell’edilizia degli ultimi sessant’anni, colpi che altrove hanno sfigurato irreparabilmente il volto eterno della nostra bella Madre.
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Il bello, oggi, continua il professore, è coattivamente portato a dialogare con il brutto che lo accerchia e soffoca tanto che spesso si finisce a pensare che l’abbandono e la rovina siano meglio del restauro (qui, fa l’esempio delle Chiese bizantine le cui lastre pavimentali sono state per la maggior parte spianate per facilitare le pulizie così che oggi sembrano dei parterre per il ballo del liscio). Se dal periodo greco-romano agli anni cinquanta sono stati costruiti dodici milioni di edifici, dagli anni cinquanta ad oggi ne sono stati costruiti più di tredici milioni, più della metà di quelli che popolano la nostra penisola, e sono proprio quest’ultimi quelli che andrebbero riconsiderati, e perché no, abbattuti, dice scherzando (ma non troppo) il professor Sgarbi. L’Italia è diventata in meno di un cinquantennio il paese più brutto del mondo (dice con quel tono d’amante deluso) perché si è perso il senso estetico: la stirpe italiana ha, oggi, un tremendo bisogno di essere rieducata al bello e di dimenticare il turpe che ha mosso i più grandi archistar degli ultimi tempi a (cito testualmente) “insozzare luoghi bellissimi puntellandoli di schifezze”: case a schiera in periferia (le costruzioni delle periferie vengono paragonate a cimiteri in cui abituarsi al loculo e allenarsi per il trapasso), case a tre piani con tetti sfalsati, cemento ovunque…
Il professore prosegue poi inneggiando al recente fenomeno di riscoperta della buona cucina ed auspica che questo possa ripercuotersi anche nell’ambiente architettonico con una Slow Architecture, che non necessariamente vuol dire legare le mani degli architetti quanto piuttosto evitare di costruire ex novo per dare la precedenza al vecchio da restaurare, per rilanciare i ruderi decadenti che fanno parte dell’Italia che anela, come donna abbandonata, di essere riscoperta e amata ancora una volta, perché, prosegue, che cosa se ne faranno gli italiani di un nuovo-volto-post-moderno, quando ne hanno uno secolare, eterno e sublime. Oggi anche la mentalità del viaggiatore è cambiata, se qualcuno vuole conoscere l’Italia non opta più per un hotel-due-stelle-vicino-alla-stazione, no, oggi, il turista intelligente sceglie borghi e agriturismi perché solo in quei luoghi potrà comprendere il fascino dimenticato.
Siano benedette, dice Vittorio Sgarbi, le menti lucide degli spiriti nostalgici che hanno dedicato anima e corpo alla rinascita e alla preservazione dei piccoli borghi arroccati nei luoghi più disparati della penisola. Tuttavia anche nel gesto con cui si salvaguardano e curano questi piccoli santuari disseminati tra le italiche sinuosità va prestata grande attenzione al chi restaura e al come lo fa, con una frase lapidare e simbolica, il professore sentenzia: non si può chiamar Picasso a restaurare Giotto, come, aggiunge, non si sarebbe dovuto chiamare Richard Meier per l’Ara Pacis, a Roma (che il professore, a lavori conclusi, aveva già definito “una pompa di benzina nel mezzo della città più bella del mondo”); per preservare l’integrità del bene, dice, si devono evitare interventi massicci o claustrofobici che ne mutino l’essenza primigenia. L’idea della bottega dell’arte e proprio quella di riconsiderare questi borghi come spazi in cui a respirare è lo spirito del mondo antico, dove si saggia un’aria lontana, perché solo partecipando e vivendo quei luoghi si sentirà il cuore di qualcuno, che ha vissuto tanto tempo fa tra quelle mura, battere forte. La profondità spirituale di questo sincretismo tra presente e passato nell’ambiente a tratti immutato permettere di comprendere il luogo attraverso il luogo stesso, mattone a mattone, ciottolo a ciottolo. Aggiunge poi che uno dei problemi principali della società italiana è la cecità e la passività con cui si assimilano miti e leggende, come quello dell’archistar, senza che si adotti alcun tipo di pensiero critico che ci porti a riflettere sul perché mai per Fuksas a Torino siano stati spesi più soldi di quanti ne abbiano mai guadagnati Bramante, Michelangelo, Raffaello e Bernini messi assieme (per La Nuvola di Fuksas sono stati stanziati 276 milioni di euro). Con tono misto critico e scettico continua inveendo sugli sprechi del nostro secolo superbo e sciocco, rimprovera il comune di Roma per aver abbandonato seicentocinquanta meravigliosi pezzi della collezione Torlonia in qualche deposito del MIBACT e aver finanziato la costruzione del MAXXI (progettato dall’architetto Zaha Hadid), che Vittorio Sgarbi definisce “un museo per opere che non abbiamo o che non possiamo permetterci”. Velocemente racconta il suo soggiorno urbinate conclusosi da poche ore e dopo un rapido accenno alla bellezza senza tempo della città (dove è candidato alle future elezioni) descrive la recentissima visita alla Scuola Del Libro dove il gusto rinascimentale aleggiante ovunque è abbacinato, a detta sua, dal turpissimo progetto di De Carlo, in particolare descrive la bruttezza dell’auditorium (a questo proposito accenna alla bruttezza dell’altro auditorium, Parco della Musica, quello dell’amico Renzo Piano) termina tra l’applauso generale sostenendo che il male minore in Italia, oggi giorno, sia l’abusivismo perché, a differenza delle grandi commissioni di Stato, questo è contenuto e spesso nascosto per non dare nell’occhio. La storia che racconta è in generale quella di un’Italia sfregiata e sconvolta dall’edilizia massiccia che soffoca la periferia di bellissime città come Palermo, narra la tragedia delle rotatorie senza senso (e cita proprio quelle tra Urbino e Pesaro, ne ha contate diciotto inutili!) e dei lavori pubblici che invece di preservare quanto già costruito, creano sempre dal nuovo senza mai considerare l’opzione del restauro, che è pur sempre un lavoro pubblico e che richiede ugualmente impiego di mezzi e lavoratori. Cercando una plausibile motivazione a queste scelte incomprensibili ritorna indietro negli anni del dopo guerra quando i nostri nonni si trovarono davanti alla possibilità di recuperare il vecchio o costruire da zero. Forse, in quel momento di grande sconvolgimento, dice, la voglia di voltare pagine fu tale da spingere quegli uomini a compiere scelleratezze tali che in poco tempo finirono per travolgere edifici storici che vanno dai ruderi di campagna alle ville liberty affacciate sul mare per rimpiazzarle con nient’altro che colate di cemento senza alcun merito architettonico né più in generale artistico! Abbiamo abbattuto case, Chiese, castelli per farne rozzi hotel, prefabbricati e monotone palazzine per cosa, si chiede? Per favorire il turismo? Per attirare visitatori e soldi? L’Italia non risorgerà mai finché non capirà qual’è la sua grandezza: l’unica economia per l’Italia è l’economia della bellezza, che è anche il suo unico futuro.
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Chiudendo il suo intervento, Vittorio Sgarbi, lascia spazio alle domande che riaprono, forse per mal celato patriottismo, il discorso del bello. Il professore inneggiando alla ricchezza culturale del Bel Paese, paragona la nostra situazione a quella di chi avesse un Morandi e lo tenesse in giardino esposto alle intemperie. Inconsapevolezza è la parola chiave, non si può andare avanti, dice, fino a quando il patrimonio verrà visto solo come qualcosa da “sfruttare” passivamente anziché qualcosa da tutelare, un’opera d’arte non va preservata solo a scopo di lucro, infatti il suo valore intrinseco resta anche se questa non sarà mai esposta. Un altro problema dogmatico e concettuale è quello della proprietà, secondo il professor Sgarbi è davvero indifferente se un bene appartenga allo stato o al privato, quello che conta è che il privato abbia la coscienza dello Stato, il che vuol dire che dovrà rendere fruibile la bellezza posseduta al pubblico (cita come esempio le varie collezioni Guggenheim dislocate in giro per il mondo). Rispondendo ancora ad una domanda sull’educazione, il professor Sgarbi vagheggia un mutamento di coscienza nazionale fondato proprio sull’istruzione giovanile, la bellezza, dice, deve tornare di moda, deve tornare ad essere trendy, ma poi si spinge oltre arrivando a parlare della bellezza come legge, parla della forza dell’esempio del bello come idea o stella polare su cui orientarsi e verso cui tendere. Perché, conclude, è importante che l’architetto di oggi e quello di domani comprendano che il dialogo tra nuovo e antico non è così immediato quando si tratta di operare accanto al “già esistente” o di restaurare antiche ville e borghi, se l’architetto respira solo l’aria del suo loft newyorchese difficilmente ricaverà esempi di bellezza rara ed ancora più difficilmente potrà operare connubi di vecchio e nuovo che non stonino sul suolo italiano, mentre invece se quell’architetto respirasse un po’ d’aria di Fano…

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VITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO”diVITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO” è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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Quando Fano stampò il primo libro in lingua araba

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La copertina del libro

Michele Gianni è un uomo di lettere e di teatro, non un fanese di nascita, ma leggendo il suo bel libro dal titolo Il piombo e l’orologio, edito da edizioni Nuove Catarsi, è impossibile non avvertire nell’autore il trasporto particolare di chi sente per un luogo una tenerezza elettiva, di chi è unito alla sua città d’adozione da una compenetrazione profonda, un senso di appartenenza affettiva più forte di qualsiasi legame anagrafico. Il piombo e l’orologio è il suo primo romanzo, un lavoro godibile, ben congegnato e dotato di un buon ritmo: l’opera ha un suo impatto visivo e la simultaneità di suggestioni differenti – il passato rinascimentale della Fano papalina, coi suoi crocicchi confessionali, il suo presente avvinghiato a ciò che resta dei riti e delle tradizioni, la contemporaneità ribollente della Siria, a cui il libro accenna (la vicenda narrata significativamente si svolge ad una manciata di giorni dall’inizio delle proteste siriane) – lo rende in qualche modo meticcio, come attraversato da un fascino ibrido: dentro ci sono molti mondi che si sovrappongono in una felice simultaneità, la realtà delle cooperative, popolata da un’umanità provata ma vitale, la dimensione domestica di una famiglia un po’ smarrita ma solida nella condivisione di una grammatica morale e di uno sguardo sulle cose, la complessità della società globale, con i suoi conflitti, i suoi guasti culturali e le sue rivendicazioni identitarie spesso feroci.

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L’Horologium venne stampato, a Fano, nel 1514, sotto il papato di Leone X: qui sopra il ritratto che gli fece Raffaello, nel 1518

Manuela è una giovane ricercatrice dell’università di Damasco, si sta occupando di uno studio sulla figura dell’ebreo errante, quando viene contattata dal Patriarca di Antiochia, interessato più alla sua provenienza che al suo curriculum, con una richiesta del tutto particolare: ritrovare una copia autentica dell’Horologium, un libro di preghiere a cui fanno riferimento i melchiti, cattolici d’Oriente di rito bizantino e lingua araba, tassello fondamentale per l’affermazione dell’identità di una confessione relegata da sempre ai margini. Sarà così costretta a tornare nella sua città natia, dopo cinque anni di assenza. Sì perché l’Horologium non è un testo qualunque, ma la prima opera in lingua araba stampata a caratteri mobili ed il primato spettò proprio alla città di Fano in cui Gregorio de’ Gregori, tipografo veneziano, si recò a stampare il volume nel 1514, seguendo, forse, le orme di Gershom Soncino, stampatore ebreo che fu attivo a Fano a inizio Cinquecento. Un capitolo della storia fanese affascinante e sconosciuto ai più che il libro, intrattenendo, rischiara, adempiendo così ad una preziosa istanza divulgativa e restituendo alla città una posizione di insospettata preminenza nella storia dell’editoria.

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L’Horologium, primo libro mai stampato in lingua araba

@CarolinaIacucci

La Decima Musa

Presentazione dell’iniziativa fotografica del Comitato: “La Decima Musa”

Diceva un tempo Tolstoy che “l’uomo è una sua manifestazione nella materia, nel tempo e nello spazio”, ritenendo ciò immensamente vero, abbiamo fatto di questa considerazione la massima del nostro agire e avendo già trovato sufficiente spazio nel terreno cittadino, sacrificando parte del nostro tempo, abbiamo pensato a come riempirlo. Abbiamo immerso le mani nel terreno argilloso di secoli di storia della nostra bella città e senza paura di sporcarci abbiamo creato qualcosa, abbiamo plasmato la materia per colmare il vuoto che ci era stato dato con quanto abbiamo trovato studiando, discutendo e camminando senza meta per le antiche vie della nostra nobile patria. Tutti coloro che recandosi alla presentazione del progetto pensavano di partecipare ad un evento “comune”, con le classiche foto delle classiche belle ragazze sono caduti in errore, le foto ritraggono sì belle ragazze, ma esse non sono che parte del tutto ed è questo tutto sul quale noi ci siamo soffermarti. Il Comitato, badate, nasce per perseguire uno scopo culturale, nato con tale intento di propaganda, sempre si farà vessillifero di ciò fin quando non si estinguerà. Qualcuno potrebbe tacciarci di vanagloria osservando come con non poca presunzione abbiamo agito in grande, come soggetti sconosciuti e poco noti abbiamo richiesto unanime collaborazione di negozianti, fotografi, letterati autoctoni per un progetto incerto e forse senza futuro. Le difficoltà non sono state poche eppure mentre agivamo seguendo immaginari fili di Arianna di un labirintico percorso più grande di noi, ad ogni passo incerto che muovevamo ci guardavamo attorno consapevoli di aver innescato forze capaci di annientarci o di innalzarci al tempo medesimo. Agendo illuminati da una instancabile volontà di riscatto abbiamo sperato che dal sodalizio di menti, sponsor e sapere sarebbe nato qualcosa di interessante e promettente e, senza peccare di immodestia, posso dire che così è stato. Le forze evocate come fiati fecondi hanno soffiato in nostro favore, gonfiando le nostre vele, così che ogni cosa mentre la si costruiva o pensava acquisiva una sua logicità, sembrava, dicevo, che fossero gli stessi elementi ad essere richiamati dall’aprioristico progetto che si aveva in mente. Ed ecco che quella posa della ragazza diventava richiamo di un “qualcosa di altro”, di un “qualcosa lontano” già visto, forse molti anni fa, forse da un nostro prozio, in questo luogo o magari più in là. L’assoluta razionalità degli elementi così come combinati ci ha permesso di astrarci dall’intento puramente celebrativo per dar vita a qualcosa di nuovo e autentico tale che potremmo definirlo una rilettura in chiave giovanile dei principali punti nevralgici della città oppure potremmo parlarne come uno sguardo nostalgico rivolto verso quei luoghi poetici dimenticati. Alla fine, quel che importava era l’attitudine evocativa di ogni immagine, filtrata attraverso la lente del fotografo, che mediante un processo di astrazione ha restituito grande dignità alle polveri della storia. La presenza dell’artefice, del suo lavoro e del substrato storico-culturale hanno reso inevitabile il richiamo alle regine dell’ispirazione artistica, le abitanti del Monte Parnaso, che come in un gioco di riflessi diventavano soggetto e fonte emanante dell’opera, centro unificatore delle pulsioni interne ed esterne, che rendevano il tutto troppo vivo ed eloquente. Nell’attimo in cui abbiamo riposto le nostre intenzioni sotto il patrocinio delle nove Muse, esse son divenute le vere protagoniste e sempre complici, dell’opera. Mentre lavoravamo sugli scatti ci siamo accorti che quella potenza artistica racchiusa in una flessione dell’arto, nella sinuosità delle giunture della carne, nelle pieghe delle lunghe vesti, negli sguardi, nella luce era incontenibile singolarmente tanto da trasbordare fuori. Così, attoniti, ci rendevamo conto che il numero nove, sebbene numero della conoscenza per gli antichi e simbolo dell’amore eterno per Dante, qui, non era sufficiente. La sovrabbondanza travolgeva l’individualità della fotografia e fuoriuscendo seguiva il corso di una carica positiva latente che scorre nel suolo cittadino. Seguendo le ricche sponde del letto del fiume siam giunti fino alla Fortunata di piazza, la nostra decima Musa, che richiamava ogni pulsione come significante del significato, espressione della nostra storia, che sebbene racchiusa in tutti i luoghi della città, qui, acquistava la sua ragionevolezza, il suo perché ultimo. Non senza un’iniziale ritrosia di fronte alla presunta banalità che poteva risultare dal considerare la divinità alla quale la nostra città è consacrata l’idolo del nostro progetto, dopo vari tentativi di falsificazione ci siamo resi sempre più conto dell’assoluta logicità di questa idea. Convinti e determinati, abbiamo avviato opere e critiche affrontando l’argomento in quell’ordine di trattazione che Esiodo esige. La prima è quindi Clio una giovane donna tra antiche rovine, avvolta in un manto rosso vermiglio, è assorta nella lettura. Clio, che rende celebri, ammantata del rosso del sangue delle battaglie, delle morti d’amore, dei tradimenti e delle congiure, è sorpresa mentre legge delle umane imprese in libri storici che Lei stessa ispirò. Questa donna, allegoria, del carme storico, consapevole della centralità del passato come chiave di lettura dell’oggi, indugia nello studio di sé, per apprendere dai suoi sbagli e dalle sue cadute. Lo scenario in rovina è quello dell’antica Chiesa di Santa Maria a Mare, consacrata primariamente da Papa Gregorio IV, poi ospizio di pellegrini e oggetto di devozione dei Malatesti che le donarono pesanti ex voto per i miracoli compiuti dalla Madonna del Mare. La Musa è immortalata stante e riflessiva in quel luogo d’abbandono che, come si narra, fu sommerso dalle acque dell’Adriatico e, riemerso, cadde in malora, disperdendosi mattone dopo mattone. Molte altre cose sarebbero da aggiungere, ma noi abbiamo preferito lasciarle all’intuito dell’osservatore perché molto spesso il meglio dell’arte sta proprio in quanto è taciuto. Nella foto successiva di Maria Luisa Palazzi c’è Euterope, che rallegra, con un flauto in mano a rappresentare la poesia lirica, nell’ameno scenario della porta della Mandria. Il nome della porta, che apriva assieme alle quattro porte principali gli originari 1760 metri di cinta muraria, è di origine medioevale e si deve al fatto che per questo varco transitavano le greggi portate al pascolo. Il combinato dello strumento musicale e dell’elemento animale sono fortemente rievocativi nell’immaginario collettivo del dio Pan, divinità protagonista del pantheon minore greco, mezzo uomo mezzo caprone raffigurato sempre con un flauto o siringa in mano. Il nome greco del Dio deriva dal verbo paein cioè pascolare, che rendeva Pan oltre che signore delle selve, dio pastore per eccellenza e protettore delle greggia. Se Euterpe avesse deciso di suonare le sue dolci note in qualche luogo della città sarebbe stato proprio qui. Se qualche Dio o uomo l’avesse cercata per richiederla come giudice di leggendarie sfide musicali (come quella tra Apollo e Marsia), proprio qui si sarebbe dovuto recare. La terza Musa è Talia, la festiva, divina incarnazione della Commedia, immortalta nella foto di Andrea Briscoli, presso le rovine dell’antica Chiesa di San Francesco presso il Comune. L’idea di Talia in questo luogo si riallaccia alla cultura italiana e ai versi dell’ Ugo Foscolo dei Sepolcri che narra di come il Parini fosse solito onorare questa Musa innalzandole corone d’alloro. Come teatro della Commedia si è scelta la Chiesa di San Francesco, che ha per tetto il cielo e per suolo l’erba, romanticissimo spettacolo di una natura incontenibile e sovrana, di cui rimane solo il perimetro interno scandito dal susseguirsi ritmico di paraste e lesene e antichi altari e sepolture. Una Talia oscura, vestita di blu come quella dipinta da Nattier, con in testa una ghirlanda d’edera simbolo di eternità, danza irridendo la morte e la fallacità umana che nulla può contro la sua incorruttibile bellezza e giovinezza. Di Commedia in Tragedia si passa a Melpomene, che canta, nella foto di Marco Signoretti presso San Pietro in Episcopio, per i fanesi San Pirusquin. Una Melpomene vestita di un lungo abito bianco medievaleggiante, che sembra uscita dalle più felici tele di Burne-Jones, più tardo esponente del movimento preraffaellita inglese. Il candore della veste, che richiama i mantelli dei Confratelli di Santa Maria del Suffragio a cui la Chiesa appartiene, unita al diafano incarnato e alla posa languida e pensosa trasmettono quella melanconicità di chi osserva la tragedia abbattersi sull’uomo e sulle cose. Tragica fu la storia della Chiesetta di pietra, di nobili natali (si disse fondata nel 78 da S. Appollinare vescovo di Ravenna), celebrata per aver accolto la spoglia vinta di Bartolagi da Fano, che difese Aquileia da Attila, fu vittima di un un lento degrado fino a quando negli anni 80 l’architetto Lamedica e la Confraternita del Suffragio non la riportarono alla sua antica purezza. Quinta nell’ordine della Teogonia è Tersicore, che si diletta nella danza, qui propriamente immortalata nel felicissimo scatto di Maria Virginia Boiani presso il Bastione Sangallo. La decisione di rappresentare la danza, massima espressione della libertà individuale ed artistica, in un luogo di guerra e di difesa, in una prima analisi parrebbe ingiustificata eppure la chiusa pianta a diamante del Bastione (1532), opera dell’architetto Antonio da Sangallo, che infiocca a guisa di nastro la cinta muraria nel lato sudorientale, contribuisce a dare qual senso di circolarità e ripetitività che contraddistinguevano le cicliche danze tribali ed anche quelle greche e romane di Menadi e Baccanti. Tersicore col suo movimento ampio investe la circolarità del luogo e diventa parte del tutto, perfettamente amalgamata con l’architettura bellica che al suo passaggio pare quasi addolcita. Una medesima potente influenza sul luogo è esercitata dalla bella Erato, che provoca desiderio, tale è la Poesia Amorosa secondo l’interpretazione di Debora Iacucci. Rappresentata mentre indugia, sensuale, in prossimità della Rocca Malatestiana, baluardo della città e contraltare nord del Bastione sopra citato. La rocca, anticamente progettata secondo i canoni difensivi prescritti da Leon Battista Alberti si struttura a cerchi concentrici: attorniata da un fossato, è protetta da una cinta di mura e da una “rocchetta” ed infine dal mastio, cioè la struttura più antica e autorevole della rocca, oggi miseramente abbattuto. Il mastio o maschio che in un’immaginario cavalleresco rappresenterebbe proprio il vigore e la forza maschia del soldato, in questo scenario voluttuario si mostra ingentilito, vinto dal richiamo dell’amorosa poesia. Non ci sono roccaforti e baluardi che la femminilità non riesca a prendere, come non c’è cuore inespugnabile che non soccomba al richiamo d’amore. Percorrendo via Nolfi giù fino alla Chiesa di San Marco, si incontrerà Polimnia, che ha molti mimi, ripresa da un Anonimo passante. Le luci del tramonto che si riflettono sulla facciata a gradini della Chiesa di San Marco riprendono le tinte della veste della Musa che con mani aperte nel classico gesto di pantomima, diventa Chiesa tramite un processo di metamorfosi già in atto. I colori della veste sembrano cangiare con l’avanzare delle luci rosse del sole morente e il capo svettante incoronato dal lauro diventa campanile e richiama la retrostante torre campanaria di “Lauro” Bonaguardia, una delle poche superstiti della furia nazista, che qui si è voluta celebrare. In prossimità dell’Arco d’Augusto Vanessa Lucchetti ha colto un’Urania in bianco e nero, con quel bastone puntato al cielo, un bastone che nell’immaginario collettivo, riccamente nutrito di secoli di credenze e studi aristotelici, è diventato asse terreste luogo in cui si incontrano le pulsioni contrastanti dei poli, positivo e negativo, vita e morte o morte e rinascita. Urania, la celeste, è l’Astronomia, lo studio del cielo, studio che fino al più tardo medioevo veniva intrapreso soprattuto per orientarsi sulla terra, si guardava lassù per muoversi quaggiù! Non è quindi casuale la sua collocazione nei pressi dell’Arco d’Augusto, porta romana a tre fornici che venne commissionata da Ottaviano Augusto a cui fu poi dedicata. La porta si trovava al culmine della strada Flaminia proveniente da Roma che qui entrava per uscire dalla porta nord, Porta Iulia poi Porta Pesaro diretta a Rimini. Fano, grazie alla sua felice posizione, divenne in poco tempo uno snodo centrale per viaggi e traffici commerciali. L’Arco ancora oggi corona il Decumano Massimo che taglia la città in due e che un tempo si intersecava con il Cardo (l’attuale via Nolfi) nei pressi del foro. Urania indugia, oggi come allora con quel suo sguardo severo sull’eterno transitare in quel bellissimo luogo mutevole, continuamente mosso, come la sua veste, come le pieghe e i drappeggi che diventano “geroglifici viventi che si ergono in maniera particolarmente espressiva per l’insondabile mistero del puro essere”. L’ultima Musa della Scuola Classica che incontreremo sarà Calliope, il bel canto, l’epica, l’immagine di Luca Roscini la ritrae presso la Darsena Borghese, dal bel loggiato tamponato. La darsena, sita ai piedi della Rocca, serviva alla protezione della città dagli attacchi dei Saraceni. Il nome deriva da papa Borghese, che ne approvò il progetto portato a termine nel 1618 dopo cinque anni dall’avvio dei lavori da Girolamo Rainaldi. Il Portus Burghesius, poi Darsena, accoglie lieto la presenza della Musa di Omero, tra i suoi luoghi, fu lei, Calliope, ad ispirare il felicissimo Catalogo delle navi (νεῶν κατάλογος), un passo del secondo tomo dell’Iliade, che prende in rassegna le navi dell’esercito Acheo prima dello sbarco a Troia. E fu sempre lei l’artefice mediata dall’umano ingegno dell’altro poema, l’Odissea, che è, come pare, tutta una storia di mare. Così se mai la Musa avesse albergato in quel di Fano, quale altro luogo se non questo le si sarebbe addetto così perfettamente: adagiata ai limiti del porto osserva le navi, il mare, le imprese dei nostri uomini. Fu lei a far parlar di noi e, come crediamo, ancora ci farà cantare.
Così giungiamo alla nostra Musa, la Decima, la Fortunata di Piazza, padrona della città, che riempe lo scatto di Simone Giacomoni con tutta la sua travolgente carica. In un remake di una notissima scena della Dolce Vita felliniana, abbiamo animato quella statuetta che da sempre alberga al culmine della nostra fontana di piazza e l’abbiamo dato un corpo dalle fattezze voluttuarie, come un’amante, come una madre e l’abbiamo eletta autentica regina dell’ispirazione, novissima musa del nostro Parnaso cittadino. La Fortuna diventa irriverente, imprevedibile, donna e come un fiume in piena “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla”.

Hanno accompagnato la presentazione gli interventi dei soci Carolina Iaccucci e Marco Brunetti.
Si ringraziano i negozi del Centro di Fano per la collaborazione (in ordine alfabetico): Arnolfi, Blanko Abbigliamento, Femme Cafè, Il Cortile, Mignon, MyLoft, Papillon, Sansovino, Street Style.
Si ringrazia la stilista Daiana Capoferri per l’abito nero della Decima Musa, realizzato su misura.

Si ringraziano tutti i fotografi per la disponibilità e il magnifico lavoro.
Ringraziamo la Confraternita del Suffragio di Fano per la gentile concessione dei luoghi.