Arte

LUX IN ARCANA, LUX IN ARCHIVIO.

di Giuditta Giardini

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Il vuoto che il riposo estivo lascia nelle nostre giornate porta spesso ad interrogarci su questioni irrisolte. Qualche tempo fa, leggendo dell’Inquisizione italiana e delle eresie, lasciai un appunto sulla mia Moleskine: “roghi a Fano?” e poi “streghe?”. Lo spleen fanese e il cattivo tempo del luglio appena trascorso mi fecero ritornare sul punto e mentre mi interrogavo sul da farsi come un Dante rodiniano, qualcuno, forse il vento, mi suggerì di consultare la sezione fanese dell’Archivio di Stato. Non ero mai stata prima d’ora all’Archivio, né sapevo dove fosse o chi lo popolasse. Forse non tutti sanno che sotto l’ala sinistra dell’entrata cortilata della Biblioteca Federiciana, dinnanzi alla nobile dimora dei Castracane, in quel piccolo uscio incorniciato da bianca pietra, riposano le memorie della nostra cittadina. La piccola sala lettura non è che un’ombrosa appendice dell’interdetto deposito dove, a detta dei simpatici archivisti, migliaia di volumi interamente scritti a mano giacciono scaffalati uno sopra l’altro. Dopo qualche ora passata tra annotazioni di spese per roghi e antiche querelles tra popolane che si ingiuriavano ora chiamandosi putana mordace ora fattucchiera, cominciai a divagare dal videlicet dei discorsi diretti incastonati nel rigore ferreo di abbreviatissimi formulai processuali latini e posai gli occhi su di uno spesso volume aperto sul tavolo. Fu così che venni introdotta allo Zonghi, così è detta la Bibbia dell’Archivio, fu infatti l’eponimo Monsignor Zonghi nel 1888 a catalogare, di buona lena, l’intero contenuto dell’archivio, commentandolo pure, come a dire: io l’ho letto. Una volta approfondita questa conoscenza venni iniziata ai segreti dell’Archivio, gli zelanti archivisti mi dissero che il vanto del luogo sono i Codici Malatestiani, una sorta di sommo libro mastro della seconda metà del trecento che solo pochi eletti sanno ancora leggere. Mi presentarono, en passant, l’archivio notarile (1364-1873), molto più esteso e srotolarono davanti ai miei occhi  increduli decine di pergamene (dal 1173) sussurrandomi come neppure l’Amiani ebbe mai il privilegio di conoscerle tutte. Scorsi il dito sui dictat di Innocenzo VIII e Alessandro VI, sui loro sigilli vermigli ad orma dell’anello papale ed infine una pergamena di un vanaglorioso CAESAR mi sbarrò la via. Era il Borgia, signore di Fano, che con quel diploma olografo e autografo (1502) concedeva alla comunità sette anni di esenzione dal pagamento del dazio della pesa, del frumento, del vino e dazione in perpetuo degli introiti dell’ufficio del Danno Dato e altre agevolazioni. Mi nutrii di ciò che affascinerebbe un giurista e sedurrebbe uno storico: scoloriti Statuti del XV secolo, verbali di consigli cittadini, la celeberrima Beneficenza Nolfi e un macro-antifonario di San Paterniano con musiche mai più suonate. Mentre, mai paga, sfogliavo il Liber Maleficiarum del 1495 trovai un piccolo schizzo di due streghe (forse) e mi immaginai il pubblico ufficiale tutto intento a disegnarle ed ugualmente in un Cabreo del 1584, recante le topografie dei possedimenti della Chiesa di San Michele, sorpresi un coniglio e un cane incisi velocemente, che mi fecero cogliere il guizzo vitale latente che scorre tra queste logore pagine con quel sapore di uno “ieri” mai veramente passato che rendere il tutto sempre presente. Con un tonfo e poi un altro e un altro ancora si chiudono i volumi che ritornano nei loro polverosi vani, dove saranno riaperti chissà quando e mentre riconsegno il primo statuto cittadino (ivi conservato), osservo i tanti commenti a margine e i cartigli disegnati dal copiatore distratto che mi ricordano le stanche glosse ai miei appunti universitari.

IL MIO TEMPO VERRA’

Riflessioni sull’ultimo Gustav Mahler di Tiziano De Felice

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Compositore, direttore, prima ebreo, poi cristiano, provinciale, cosmopolita, uomo solitario e allo stesso tempo padre di famiglia, ultimo grande sinfonista ed erede della tradizione musicale occidentale di fine ‘900… Certo non è semplice inquadrare un autore dalle mille sfaccettature come Gustav Mahler (1860-1911) all’interno di un contesto musicale, certamente non sarebbe appropriato farlo in poche righe, ma poiché penso che la sua musica possa ancora essere di grande interesse per noi ascoltatori, sotto molteplici aspetti, credo che conoscere ed imparare ad amare (o se vogliamo, “apprezzare”) almeno una sua composizione sia quantomeno doveroso. Paradossalmente inizierò proprio dalla fine, dalla sua Nona ed ultima sinfonia e nello specifico l’Adagio, il movimento finale. La chiave di questa mia scelta risiede nell’indiscussa attualità del suo messaggio. Vedremo infatti come il XX secolo sia stato il secolo della morte per eccellenza e come Mahler ne fu il suo indiscusso profeta. Al XX secolo, così infestato dalla presenza DELLA morte, includerei anche il secolo precedente, con la sua poetica ossessione VERSO la morte, da Keats e la sua “Ode a un Usignolo” (… e mai come adesso m’è sembrato ricco il morire) a Wagner con il “Tristano e Isotta” e l’iconica scena della morte d’amore (liebestod). In fin dei conti, riflettendoci bene, ogni secolo ha affrontato a suo modo il problema della mortalità. Quindi, alla domanda, perché proprio il XX secolo? Ecco perche’: perché mai prima di allora l’uomo si era confrontato con il devastante concetto di una morte su scala globale. La morte totale, l’estinzione di un’intera razza. E Mahler, consapevole di essere prossimo al capolinea, non era l’unico a condividere quella visione: come lui la pensavano Einstein, Freud e Wittgenstein, tutti inconsciamente avevano allineato il proprio pensiero. Stesso sermone, ma con parole diverse: attenti a ciò che fatel’Apocalisse sta arrivando. Perdita di ogni fede e anni inquieti, simili ad una tragedia scritta male.

Atto I: ipocrisia e brama di potere portano il popolo verso una guerra mondiale, ingiustizia e isteria postbellica e via, di corsa verso il II atto. Funghi atomici, crisi di mercato e boom, muri di cemento, cortine di ferro, accendi/spegni, mass media, i nuovi guru e, le mode e religioni alla moda… tutto sempre sotto lo sguardo dell’angelo della morte planetaria.

Che cosa fa dunque l’uomo del 1908 consapevole di tutto questo, una persona nevrotica, ipersensibile come Mahler, con un piede ancora saldamente ancorato nell’obsoleto clima tardo-ottocentesco ed un altro che cerca nuovi sentieri nel nuovo secolo, quello della psicanalisi e della modernità? Che cosa fa? Profetizza, sperando che qualcuno colga le briciole sparse sul sentiero. E numerose menti in seguito lo fecero: Stravinskij, Brecht, Picasso, Dali’ o Camus, Nabokov, Capote… la lista prosegue. Opere generate dall’angoscia e dal timore, tutte che aggirano la morte. Tutto ciò Mahler l’aveva già visto ed ecco perché si aggrappò fino all’ultimo al IX secolo. L’ironia è che lui ci riuscì ad evitare il XX secolo, ma soltanto con la sua morte prematura, nel 1911. La morte tocca ogni composizione di Mahler e fu la sua Nona Sinfonia a diffondere il messaggio definitivo, che però poco importò al resto del mondo. Musica troppo onesta, troppo rivelatrice per un’orecchio viziato (figuriamoci per un orecchio “moderno” come il nostro!). Ma allora, quale tipo di messaggio porta con sé il Finale di questa sinfonia? Quello di tre tipi di morte: in primis la sua, di cui era consapevole, oramai imminente, poi la morte della tonalità musicale, arrivata alla sua massima estensione, al suo punto di rottura. L’intera Nona Sinfonia è un addio alla musica occidentale come la conosceva Mahler, un ballo febbrile sul bordo del precipizio. Infine, la morte della società e della nostra cultura “faustiana”. Ma dopo simili sconfortanti presagi, come abbiamo fatto allora a sopravvivere fino ai giorni nostri? Impariamo ad accettare la nostra mortalità eppure perseguiamo sempre un altro obiettivo: l’immortalità. Anche in mezzo alla tragedia più grande continuiamo a credere in un futuro. Lo stesso vale per Mahler. Emergiamo con una maggiore serenità e fiducia dalla tragedia, quasi risollevati, grazie alla sola forza della creatività e la voglia di proseguire. Tutto questo avveniva nel 1908, nell’Europa dell’inconscio, che proprio mentre ballava i suoi ultimi valzer stava generando l’uomo nel suo stadio finale: l’uomo che progetta la sua distruzione mentre allo stesso tempo si lancia verso il futuro. L’Adagio della Nona sinfonia non è che una rappresentazione sonora dell’ultimo grande crepuscolo occidentale, il quale paradossalmente ci rianima e solleva. Negli ultimi istanti, se ascoltiamo bene, cessa ogni tipo di movimento, vi è un congelamento ed un’immobilità di spirito, una condizione di pura meditazione. Una preghiera finale rivolta all’arte e la società, l’ultimo corale di Mahler. Una preghiera fatta di una silente accettazione, dove l’autore si prostra completamente, senza indugi. Dopo aver tentato ogni possibile strada, non resta che la rassegnazione mentre ci avviciniamo alla morte vera e propria, arrendendoci all’inevitabile. Infine, paralizzati dalla lentezza e dalla terrificante immobilità delle ultime battute di musica, in uno stato tra la speranza e la completa sottomissione, assistiamo impotenti agli ultimi filamenti di note mentre scompaiono tra le nostre dita ed infine, il silenzio.

VITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO”

di Giuditta Giardini

Un intervento che doveva essere incentrato sulla storia delle botteghe dell’arte in un viaggio dal Rinascimento ai nostri giorni si è velocemente trasformato in una sorprendente celebrazione della bellezza italiana. Che cosa muove l’Italia a distruggere la bellezza, si chiede il professore Vittorio Sgarbi, che cosa ha permesso la diffusione delle metastasi di cemento che hanno totalmente mutato l’immagine del nostro Bel Paese? Eppure tra i tanti orrori, la regione Marche si direbbe aver conservato piccoli borghi intatti dove si sente ancora il profumo dell’Italia perduta, dimenticata, un’Italia partigiana che ha resistito ai colpi dell’edilizia degli ultimi sessant’anni, colpi che altrove hanno sfigurato irreparabilmente il volto eterno della nostra bella Madre.
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Il bello, oggi, continua il professore, è coattivamente portato a dialogare con il brutto che lo accerchia e soffoca tanto che spesso si finisce a pensare che l’abbandono e la rovina siano meglio del restauro (qui, fa l’esempio delle Chiese bizantine le cui lastre pavimentali sono state per la maggior parte spianate per facilitare le pulizie così che oggi sembrano dei parterre per il ballo del liscio). Se dal periodo greco-romano agli anni cinquanta sono stati costruiti dodici milioni di edifici, dagli anni cinquanta ad oggi ne sono stati costruiti più di tredici milioni, più della metà di quelli che popolano la nostra penisola, e sono proprio quest’ultimi quelli che andrebbero riconsiderati, e perché no, abbattuti, dice scherzando (ma non troppo) il professor Sgarbi. L’Italia è diventata in meno di un cinquantennio il paese più brutto del mondo (dice con quel tono d’amante deluso) perché si è perso il senso estetico: la stirpe italiana ha, oggi, un tremendo bisogno di essere rieducata al bello e di dimenticare il turpe che ha mosso i più grandi archistar degli ultimi tempi a (cito testualmente) “insozzare luoghi bellissimi puntellandoli di schifezze”: case a schiera in periferia (le costruzioni delle periferie vengono paragonate a cimiteri in cui abituarsi al loculo e allenarsi per il trapasso), case a tre piani con tetti sfalsati, cemento ovunque…
Il professore prosegue poi inneggiando al recente fenomeno di riscoperta della buona cucina ed auspica che questo possa ripercuotersi anche nell’ambiente architettonico con una Slow Architecture, che non necessariamente vuol dire legare le mani degli architetti quanto piuttosto evitare di costruire ex novo per dare la precedenza al vecchio da restaurare, per rilanciare i ruderi decadenti che fanno parte dell’Italia che anela, come donna abbandonata, di essere riscoperta e amata ancora una volta, perché, prosegue, che cosa se ne faranno gli italiani di un nuovo-volto-post-moderno, quando ne hanno uno secolare, eterno e sublime. Oggi anche la mentalità del viaggiatore è cambiata, se qualcuno vuole conoscere l’Italia non opta più per un hotel-due-stelle-vicino-alla-stazione, no, oggi, il turista intelligente sceglie borghi e agriturismi perché solo in quei luoghi potrà comprendere il fascino dimenticato.
Siano benedette, dice Vittorio Sgarbi, le menti lucide degli spiriti nostalgici che hanno dedicato anima e corpo alla rinascita e alla preservazione dei piccoli borghi arroccati nei luoghi più disparati della penisola. Tuttavia anche nel gesto con cui si salvaguardano e curano questi piccoli santuari disseminati tra le italiche sinuosità va prestata grande attenzione al chi restaura e al come lo fa, con una frase lapidare e simbolica, il professore sentenzia: non si può chiamar Picasso a restaurare Giotto, come, aggiunge, non si sarebbe dovuto chiamare Richard Meier per l’Ara Pacis, a Roma (che il professore, a lavori conclusi, aveva già definito “una pompa di benzina nel mezzo della città più bella del mondo”); per preservare l’integrità del bene, dice, si devono evitare interventi massicci o claustrofobici che ne mutino l’essenza primigenia. L’idea della bottega dell’arte e proprio quella di riconsiderare questi borghi come spazi in cui a respirare è lo spirito del mondo antico, dove si saggia un’aria lontana, perché solo partecipando e vivendo quei luoghi si sentirà il cuore di qualcuno, che ha vissuto tanto tempo fa tra quelle mura, battere forte. La profondità spirituale di questo sincretismo tra presente e passato nell’ambiente a tratti immutato permettere di comprendere il luogo attraverso il luogo stesso, mattone a mattone, ciottolo a ciottolo. Aggiunge poi che uno dei problemi principali della società italiana è la cecità e la passività con cui si assimilano miti e leggende, come quello dell’archistar, senza che si adotti alcun tipo di pensiero critico che ci porti a riflettere sul perché mai per Fuksas a Torino siano stati spesi più soldi di quanti ne abbiano mai guadagnati Bramante, Michelangelo, Raffaello e Bernini messi assieme (per La Nuvola di Fuksas sono stati stanziati 276 milioni di euro). Con tono misto critico e scettico continua inveendo sugli sprechi del nostro secolo superbo e sciocco, rimprovera il comune di Roma per aver abbandonato seicentocinquanta meravigliosi pezzi della collezione Torlonia in qualche deposito del MIBACT e aver finanziato la costruzione del MAXXI (progettato dall’architetto Zaha Hadid), che Vittorio Sgarbi definisce “un museo per opere che non abbiamo o che non possiamo permetterci”. Velocemente racconta il suo soggiorno urbinate conclusosi da poche ore e dopo un rapido accenno alla bellezza senza tempo della città (dove è candidato alle future elezioni) descrive la recentissima visita alla Scuola Del Libro dove il gusto rinascimentale aleggiante ovunque è abbacinato, a detta sua, dal turpissimo progetto di De Carlo, in particolare descrive la bruttezza dell’auditorium (a questo proposito accenna alla bruttezza dell’altro auditorium, Parco della Musica, quello dell’amico Renzo Piano) termina tra l’applauso generale sostenendo che il male minore in Italia, oggi giorno, sia l’abusivismo perché, a differenza delle grandi commissioni di Stato, questo è contenuto e spesso nascosto per non dare nell’occhio. La storia che racconta è in generale quella di un’Italia sfregiata e sconvolta dall’edilizia massiccia che soffoca la periferia di bellissime città come Palermo, narra la tragedia delle rotatorie senza senso (e cita proprio quelle tra Urbino e Pesaro, ne ha contate diciotto inutili!) e dei lavori pubblici che invece di preservare quanto già costruito, creano sempre dal nuovo senza mai considerare l’opzione del restauro, che è pur sempre un lavoro pubblico e che richiede ugualmente impiego di mezzi e lavoratori. Cercando una plausibile motivazione a queste scelte incomprensibili ritorna indietro negli anni del dopo guerra quando i nostri nonni si trovarono davanti alla possibilità di recuperare il vecchio o costruire da zero. Forse, in quel momento di grande sconvolgimento, dice, la voglia di voltare pagine fu tale da spingere quegli uomini a compiere scelleratezze tali che in poco tempo finirono per travolgere edifici storici che vanno dai ruderi di campagna alle ville liberty affacciate sul mare per rimpiazzarle con nient’altro che colate di cemento senza alcun merito architettonico né più in generale artistico! Abbiamo abbattuto case, Chiese, castelli per farne rozzi hotel, prefabbricati e monotone palazzine per cosa, si chiede? Per favorire il turismo? Per attirare visitatori e soldi? L’Italia non risorgerà mai finché non capirà qual’è la sua grandezza: l’unica economia per l’Italia è l’economia della bellezza, che è anche il suo unico futuro.
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Chiudendo il suo intervento, Vittorio Sgarbi, lascia spazio alle domande che riaprono, forse per mal celato patriottismo, il discorso del bello. Il professore inneggiando alla ricchezza culturale del Bel Paese, paragona la nostra situazione a quella di chi avesse un Morandi e lo tenesse in giardino esposto alle intemperie. Inconsapevolezza è la parola chiave, non si può andare avanti, dice, fino a quando il patrimonio verrà visto solo come qualcosa da “sfruttare” passivamente anziché qualcosa da tutelare, un’opera d’arte non va preservata solo a scopo di lucro, infatti il suo valore intrinseco resta anche se questa non sarà mai esposta. Un altro problema dogmatico e concettuale è quello della proprietà, secondo il professor Sgarbi è davvero indifferente se un bene appartenga allo stato o al privato, quello che conta è che il privato abbia la coscienza dello Stato, il che vuol dire che dovrà rendere fruibile la bellezza posseduta al pubblico (cita come esempio le varie collezioni Guggenheim dislocate in giro per il mondo). Rispondendo ancora ad una domanda sull’educazione, il professor Sgarbi vagheggia un mutamento di coscienza nazionale fondato proprio sull’istruzione giovanile, la bellezza, dice, deve tornare di moda, deve tornare ad essere trendy, ma poi si spinge oltre arrivando a parlare della bellezza come legge, parla della forza dell’esempio del bello come idea o stella polare su cui orientarsi e verso cui tendere. Perché, conclude, è importante che l’architetto di oggi e quello di domani comprendano che il dialogo tra nuovo e antico non è così immediato quando si tratta di operare accanto al “già esistente” o di restaurare antiche ville e borghi, se l’architetto respira solo l’aria del suo loft newyorchese difficilmente ricaverà esempi di bellezza rara ed ancora più difficilmente potrà operare connubi di vecchio e nuovo che non stonino sul suolo italiano, mentre invece se quell’architetto respirasse un po’ d’aria di Fano…

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VITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO”diVITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO” è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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KLIMT, alle origini di un mito.

di Tiziano de Felice e Giuditta Giardini

Musica - Gustav Klimt

Musica – Gustav Klimt

Klimt nacque a Vienna nel 1862, figlio di un artigiano, studiò presso la Kunstgewerbeschule diventando un decoratore e pittore tra i massimi esponenti dell’art noveau, dipinse quadri ma anche muri e soffitti di alcuni degli edifici pubblici più opulenti di tutta Vienna. E’ considerato l’artista “definitivo” degli ultimi anni dell’impero degli Asburgo, una stella all’interno di una cultura caratterizzata da una grande audacia: gli scrittori Arthur Schnitzler e Robert Musil, il compositore Gustav Mahler e l’architetto Adolf Loos erano tutti contemporanei di Klimt. Eppure il  contemporaneo a cui più assomigliava era Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi.

Zoe Porfirogenita - Santa Sofia

Zoe Porfirogenita – Santa Sofia

Superata la parete introduttiva dell’esposizione votata al mito di Klimt (ora a Palazzo Reale), riaprì le danze ai ricordi e fu così che vaghe nozioni cominciarono a vorticare su di me. Ben presto al turbine della memoria si unirono donne bianchissime, con lunghi capelli e sguardi paghi, le scarne membra femminee si spandevano in uno sfondo perfettamente dorato con un senso di stante regalità che avevo visto altrove, ma dove? In un secondo fui nella vuota basilica di San Vitale e ricordai il tonfo delle ginocchia sulla fredda pietra, la magnificenza dell’abside. 
Lo sguardo scorreva lento sulla pala d’oro di Venezia poi si fermò a Washington, sull’aureola della Madonna di Giotto.
Tornai indietro ed entrai nella prima sala. Rimasi tra Demetra e Apollo, fissa su quel rame reso come ambra colata e pietre colorate, poi tra il Giorno e la Notte dove rividi mio nonno e i suoi metalli. Intimamente compresi che cosa volesse dire quella fase aurea ridisegnata “a memoria dell’infanzia”, che è memoria di un padre orafo incisore e ugualmente richiamo all’arte primitiva, all’età dell’oro. 

Klimt divide le opinioni. Per ogni persona che trova le sue opere incredibili, seduttrici e sublimi, vi è sicuramente qualcuno che punterà il dito definendo la sua arte un po’ volgare con tutto quell’oro, un po’ pedissequo nella sua ostentata celebrazione di ricche e nobili donne, e forse anche un po’ egocentrico. E’ una visione del tutto negativa, un errore della storia, di ciò che è sopravvissuto del suo lavoro e non.

Passando alla seconda sala apprezzai l’implementazione della tecnica pittorica del giovane trio Gustav e Ernest Klimt e Franz Matsch finora solo vagheggiata e il variare puntuale della tematica. Tra armi e armature sfolgoranti, compresi come difronte ai miei occhi si srotolava il secondo capitolo aureo, quello medioevale. Secoli perduti di grandi ideali e profonda fede catturarono la mia mente, finì a riflettere sulla fugacità del vivere, ma appena girai l’angolo mi accorsi di non essere la sola.
Una copia del Beethoven di Max Klinger se ne stava rodinamente pensando dinnanzi ad una riproduzione del suo Fregio, dove il musicista, come prode cavaliere, fronteggia le insidie della vita, per ricongiungersi con la poesia che infine ama, in quel maestosissimo abbraccio che chiude il lungo fregio paretale, tra le dolci note del coro angelico. 

Fregio di Beethoven - Gustav Klimt

Bacio cosmico del Fregio di Beethoven – Gustav Klimt

Una profonda influenza sulle sue opere la ebbe Friedrich Nietzsche con “La Nascita della Tragedia”, che sostiene che la tragedia greca nacque dalla musica, la più pura tra le arti poiché accede le parti più profonde e primitive della psiche. Un dipinto dove sicuramente Klimt “drammatizzò” questa radicale teoria e’ il “Fregio di Beethoven”: un tortuoso viaggio che finisce con la scoperta della gioia (Freude!) attraverso le arti e viene infine rappresentata con un bacio universale. Così il fregio espone il desiderio umano, che può solo essere saziato attraverso una ricerca individuale ma comune, nella bellezza delle arti insieme all’amicizia e l’amore. Nel 1902, Klimt dipinse il “Fregio di Beethoven” per la 14° Secessione di Vienna: una celebrazione del compositore, dove appariva anche una monumentale scultura di Max Klinger. Qui Klimt cercò di convertire l’arte visiva in musica, gli spazi vuoti tra le figure ricordano gli immensi silenzi e tempi statici nella musica di Wagner o Mahler. Nella scena più spettacolare un mostruoso scimmione, un gruppo di Furie emaciate e i demoni che minacciano la felicità umana, fanno rapidamente sprofondare nelle oscure e irrazionali profondità del mito.

Proseguì ormai rapita da questo gioco di oro e tenebre, le mani nervose di Salomè, adeguatamente illuminate si insinuavano tra la recisa chioma del Battista.

Dietro il Klimt che tutti credono di conoscere, l’opulento artista del desiderio, ne esiste un altro: un pittore che, anni avanti rispetto Picasso e Matisse, annientò le tradizioni e divenne creatore di bellezze terrificanti.

Considerai la terza età dell’oro quella delle monete, delle immagini antiche e nuove, delle altezzose figure di Klimt, di quelle superbe di Moser. 

Banconota - Moser

Banconota – Moser

Ne “la Nascita della Tragedia”, Nietzsche sostiene che la cultura occidentale è spronata da una sicurezza superficiale nelle nozioni e da una spinta grossolana nel voler manipolare il mondo: questo razionalismo “ottimista”, scrive, doveva cedere il passo ad una sensibilità tragica che accetta le incertezze delle nostre percezioni. In altre parole, mentre la scienza dell’epoca sembrava già poter offrire certezze, Nietzsche prediligeva una comprensione più soggettiva del mondo. La filosofia di Klimt rende visibile in maniera commovente quest’idea nei suoi quadri con corpi umani ricchi di amore, desiderio, giovani o prossimi alla morte: l’universo attraverso il quale viaggiano è un vertiginoso vuoto cosmico puntellato di stelle.

Filosofia - Gustav Klimt

Filosofia – Gustav Klimt

Un vuoto cosmico puntellato di stelle, l’ossimoro di fuochi fatui e acqua tetra, le allegorie per l’Aula Magna dell’Università di Vienna, la filosofia, il pessimismo, la critica e i dissapori con la committenza. Fui assalita dal sentimento di una ricerca di qualcosa che va oltre il sensibile, più eloquente degli sfondi di Fra Angelico, più sacro del Ver Sacrum, più fulgido dello speculum veritatis. Tra quelle oscurità sentii vibrare l’ansia dell’attesa di qualcosa di ignoto. Un richiamo ad un altro altrove, un’assenza. 

Con il loro erotismo imperturbato, i quadri di Klimt nutrono un credo comune con il pensiero di Freud, che scandalizzò il mondo con la sua insistenza sul fatto che la sessualità è al centro delle vite emotive di tutti noi.

Si potrebbero persino paragonare le sessioni di psicoanalisi di Freud con la prassi del ritrarre di Klimt. Klimt era un uomo molto riservato, che non si sposò mai, provò una forte passione per la cognata, nonostante ciò si diceva che andasse a letto con molte delle donne che ritraeva: certamente i suoi dipinti così audaci puntano ad una intimità che va ben oltre l’erotismo..

Giunta all’ultima sala, nel silenzio delle mani incompiute di Adamo ed Eva vidi le lettere ad Emile Floge, la cognata, vidi vane  promesse non mantenute, vidi un cuore trafitto da mille e mille frecce schizzato su di un minuscolo carnet di ballo; tutto sapeva di peccato e d’amore. Poi uscì. 

Ver Sacrum- Aprile 1898

Ver Sacrum- Aprile 1898