VITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO”

di Giuditta Giardini

Un intervento che doveva essere incentrato sulla storia delle botteghe dell’arte in un viaggio dal Rinascimento ai nostri giorni si è velocemente trasformato in una sorprendente celebrazione della bellezza italiana. Che cosa muove l’Italia a distruggere la bellezza, si chiede il professore Vittorio Sgarbi, che cosa ha permesso la diffusione delle metastasi di cemento che hanno totalmente mutato l’immagine del nostro Bel Paese? Eppure tra i tanti orrori, la regione Marche si direbbe aver conservato piccoli borghi intatti dove si sente ancora il profumo dell’Italia perduta, dimenticata, un’Italia partigiana che ha resistito ai colpi dell’edilizia degli ultimi sessant’anni, colpi che altrove hanno sfigurato irreparabilmente il volto eterno della nostra bella Madre.
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Il bello, oggi, continua il professore, è coattivamente portato a dialogare con il brutto che lo accerchia e soffoca tanto che spesso si finisce a pensare che l’abbandono e la rovina siano meglio del restauro (qui, fa l’esempio delle Chiese bizantine le cui lastre pavimentali sono state per la maggior parte spianate per facilitare le pulizie così che oggi sembrano dei parterre per il ballo del liscio). Se dal periodo greco-romano agli anni cinquanta sono stati costruiti dodici milioni di edifici, dagli anni cinquanta ad oggi ne sono stati costruiti più di tredici milioni, più della metà di quelli che popolano la nostra penisola, e sono proprio quest’ultimi quelli che andrebbero riconsiderati, e perché no, abbattuti, dice scherzando (ma non troppo) il professor Sgarbi. L’Italia è diventata in meno di un cinquantennio il paese più brutto del mondo (dice con quel tono d’amante deluso) perché si è perso il senso estetico: la stirpe italiana ha, oggi, un tremendo bisogno di essere rieducata al bello e di dimenticare il turpe che ha mosso i più grandi archistar degli ultimi tempi a (cito testualmente) “insozzare luoghi bellissimi puntellandoli di schifezze”: case a schiera in periferia (le costruzioni delle periferie vengono paragonate a cimiteri in cui abituarsi al loculo e allenarsi per il trapasso), case a tre piani con tetti sfalsati, cemento ovunque…
Il professore prosegue poi inneggiando al recente fenomeno di riscoperta della buona cucina ed auspica che questo possa ripercuotersi anche nell’ambiente architettonico con una Slow Architecture, che non necessariamente vuol dire legare le mani degli architetti quanto piuttosto evitare di costruire ex novo per dare la precedenza al vecchio da restaurare, per rilanciare i ruderi decadenti che fanno parte dell’Italia che anela, come donna abbandonata, di essere riscoperta e amata ancora una volta, perché, prosegue, che cosa se ne faranno gli italiani di un nuovo-volto-post-moderno, quando ne hanno uno secolare, eterno e sublime. Oggi anche la mentalità del viaggiatore è cambiata, se qualcuno vuole conoscere l’Italia non opta più per un hotel-due-stelle-vicino-alla-stazione, no, oggi, il turista intelligente sceglie borghi e agriturismi perché solo in quei luoghi potrà comprendere il fascino dimenticato.
Siano benedette, dice Vittorio Sgarbi, le menti lucide degli spiriti nostalgici che hanno dedicato anima e corpo alla rinascita e alla preservazione dei piccoli borghi arroccati nei luoghi più disparati della penisola. Tuttavia anche nel gesto con cui si salvaguardano e curano questi piccoli santuari disseminati tra le italiche sinuosità va prestata grande attenzione al chi restaura e al come lo fa, con una frase lapidare e simbolica, il professore sentenzia: non si può chiamar Picasso a restaurare Giotto, come, aggiunge, non si sarebbe dovuto chiamare Richard Meier per l’Ara Pacis, a Roma (che il professore, a lavori conclusi, aveva già definito “una pompa di benzina nel mezzo della città più bella del mondo”); per preservare l’integrità del bene, dice, si devono evitare interventi massicci o claustrofobici che ne mutino l’essenza primigenia. L’idea della bottega dell’arte e proprio quella di riconsiderare questi borghi come spazi in cui a respirare è lo spirito del mondo antico, dove si saggia un’aria lontana, perché solo partecipando e vivendo quei luoghi si sentirà il cuore di qualcuno, che ha vissuto tanto tempo fa tra quelle mura, battere forte. La profondità spirituale di questo sincretismo tra presente e passato nell’ambiente a tratti immutato permettere di comprendere il luogo attraverso il luogo stesso, mattone a mattone, ciottolo a ciottolo. Aggiunge poi che uno dei problemi principali della società italiana è la cecità e la passività con cui si assimilano miti e leggende, come quello dell’archistar, senza che si adotti alcun tipo di pensiero critico che ci porti a riflettere sul perché mai per Fuksas a Torino siano stati spesi più soldi di quanti ne abbiano mai guadagnati Bramante, Michelangelo, Raffaello e Bernini messi assieme (per La Nuvola di Fuksas sono stati stanziati 276 milioni di euro). Con tono misto critico e scettico continua inveendo sugli sprechi del nostro secolo superbo e sciocco, rimprovera il comune di Roma per aver abbandonato seicentocinquanta meravigliosi pezzi della collezione Torlonia in qualche deposito del MIBACT e aver finanziato la costruzione del MAXXI (progettato dall’architetto Zaha Hadid), che Vittorio Sgarbi definisce “un museo per opere che non abbiamo o che non possiamo permetterci”. Velocemente racconta il suo soggiorno urbinate conclusosi da poche ore e dopo un rapido accenno alla bellezza senza tempo della città (dove è candidato alle future elezioni) descrive la recentissima visita alla Scuola Del Libro dove il gusto rinascimentale aleggiante ovunque è abbacinato, a detta sua, dal turpissimo progetto di De Carlo, in particolare descrive la bruttezza dell’auditorium (a questo proposito accenna alla bruttezza dell’altro auditorium, Parco della Musica, quello dell’amico Renzo Piano) termina tra l’applauso generale sostenendo che il male minore in Italia, oggi giorno, sia l’abusivismo perché, a differenza delle grandi commissioni di Stato, questo è contenuto e spesso nascosto per non dare nell’occhio. La storia che racconta è in generale quella di un’Italia sfregiata e sconvolta dall’edilizia massiccia che soffoca la periferia di bellissime città come Palermo, narra la tragedia delle rotatorie senza senso (e cita proprio quelle tra Urbino e Pesaro, ne ha contate diciotto inutili!) e dei lavori pubblici che invece di preservare quanto già costruito, creano sempre dal nuovo senza mai considerare l’opzione del restauro, che è pur sempre un lavoro pubblico e che richiede ugualmente impiego di mezzi e lavoratori. Cercando una plausibile motivazione a queste scelte incomprensibili ritorna indietro negli anni del dopo guerra quando i nostri nonni si trovarono davanti alla possibilità di recuperare il vecchio o costruire da zero. Forse, in quel momento di grande sconvolgimento, dice, la voglia di voltare pagine fu tale da spingere quegli uomini a compiere scelleratezze tali che in poco tempo finirono per travolgere edifici storici che vanno dai ruderi di campagna alle ville liberty affacciate sul mare per rimpiazzarle con nient’altro che colate di cemento senza alcun merito architettonico né più in generale artistico! Abbiamo abbattuto case, Chiese, castelli per farne rozzi hotel, prefabbricati e monotone palazzine per cosa, si chiede? Per favorire il turismo? Per attirare visitatori e soldi? L’Italia non risorgerà mai finché non capirà qual’è la sua grandezza: l’unica economia per l’Italia è l’economia della bellezza, che è anche il suo unico futuro.
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Chiudendo il suo intervento, Vittorio Sgarbi, lascia spazio alle domande che riaprono, forse per mal celato patriottismo, il discorso del bello. Il professore inneggiando alla ricchezza culturale del Bel Paese, paragona la nostra situazione a quella di chi avesse un Morandi e lo tenesse in giardino esposto alle intemperie. Inconsapevolezza è la parola chiave, non si può andare avanti, dice, fino a quando il patrimonio verrà visto solo come qualcosa da “sfruttare” passivamente anziché qualcosa da tutelare, un’opera d’arte non va preservata solo a scopo di lucro, infatti il suo valore intrinseco resta anche se questa non sarà mai esposta. Un altro problema dogmatico e concettuale è quello della proprietà, secondo il professor Sgarbi è davvero indifferente se un bene appartenga allo stato o al privato, quello che conta è che il privato abbia la coscienza dello Stato, il che vuol dire che dovrà rendere fruibile la bellezza posseduta al pubblico (cita come esempio le varie collezioni Guggenheim dislocate in giro per il mondo). Rispondendo ancora ad una domanda sull’educazione, il professor Sgarbi vagheggia un mutamento di coscienza nazionale fondato proprio sull’istruzione giovanile, la bellezza, dice, deve tornare di moda, deve tornare ad essere trendy, ma poi si spinge oltre arrivando a parlare della bellezza come legge, parla della forza dell’esempio del bello come idea o stella polare su cui orientarsi e verso cui tendere. Perché, conclude, è importante che l’architetto di oggi e quello di domani comprendano che il dialogo tra nuovo e antico non è così immediato quando si tratta di operare accanto al “già esistente” o di restaurare antiche ville e borghi, se l’architetto respira solo l’aria del suo loft newyorchese difficilmente ricaverà esempi di bellezza rara ed ancora più difficilmente potrà operare connubi di vecchio e nuovo che non stonino sul suolo italiano, mentre invece se quell’architetto respirasse un po’ d’aria di Fano…

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VITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO”diVITTORIO SGARBI A FANO: DISCORSO SULLE BOTTEGHE DELL’ARTE NEL “PAESE PIÙ BRUTTO DEL MONDO” è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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